NEL SEGNO DEL SERPENTE

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Antichi rituali ofidici esplodono a maggio in terra d’Abruzzo. Ed in onore di san Dome­nico di Cocullo. In un or­dine zodiacale sovvertito svanisce la Costellazione del Toro e sì entra Nel segno del serpente-. «Se il contagio dei denti/ del ca­ne rabbioso e dell’aspide/ desideri subito evitare, / invoca il nome di Dome­nico». Cosi recita la prima quartina di un inno in lati­no composto in onore di san Domenico di Cocullo. E’ contenuto in un libretto devozionale dal titolo Bre­ve notizia del miracolosis­simo Dente di San Dome­nico che si conserva nella Terra di Cocullo (Napoli, 1770) e che ha avuto in se­guito numerose ristampe. Un vero best seller, dun­que.

Ma chi è san Domenico di Cocullo, noto anche co­me san Domenico “di Foligno” o “di Sora”, in rife­rimento rispettivamente al luogo di nascita (probabil­mente nel 951) ed a quello della sua morte, avvenuta il 22 gennaio del 1031? E’ un frate benedettino che preferisce alla vita cenobìca quella eremitica, da lui ritenuta più consona al colloquio diretto con Dio.

Lo si vede pertanto, come attestano due Vitae del santo scritte dai monaci discepoli Alberico e Giovanni, costantemente im­pegnato nella fondazione dì eremi nei luoghi più im­pervi dell’Appennino cen­trale; fra cui appunto uno nei pressi di Cocullo.

A richiesta del clero di Cocullo, preoccupato per la neve che rendeva im­praticabili le strade e scarso

l’aflusso dei fedeli, Pa­pa Leone XII dispose in data 27 aprile 1824 che la festa non si svolgesse più il 22 gennaio, dies natalis di san Domenico, ma nel pri­mo di festivo del mese di maggio. Tuttavia in ricor­do di un miracolo compiu­to dal santo nel primo gio­vedì di maggio del 1777, fu stabilito alcuni anni dopo che la ricorrenza si cele­brasse proprio in tale giór­no. E da allora essa non ha subito più mutamenti.

Nell’ultima decade di aprile: le cime più alte del-l’Appennino sono ancora innevate in terra d’Abruz­zo ed alimentano una mi­riade di torrenti che preci­pitano a valle spumeggianti e scompaiono, a tratti, inghiottiti da manti di cerri e faggi. E’ questo un ha­bitat ideale per alcune spe­cie di ofìdi non velenosi. Per lo più bisce. Sulle trac­ce di tali  rettili si pongono i “serpari” di Cocullo. La loro abilità consiste nell’operare il  cosidetto “strap­po dei denti”, che si ottiene  costringendo gli ofìdi appena catturati a morderere la falda di un cappello, sottratta di scatto dalle loro fauci   I rettili , di per se non velenosi,  diventano cosi ancora più innocui e riposti dentro sacchi contenenti della crusca, vi resteranno indisturbati fino alla mattina del primo gio­vedì di maggio.

Siamo dunque al giorno di festa. Cocullo e invasa fin dal mattino da devoti  provenienti con ogni mez­zo da tutte le regioni limi­trofe ed in particolar modo dalla Marsica, dalla Ciociaria e dalle località della provincia di Chieti centri culturali di san Domenico. Procedendo a fatica fra la folla soffocante, i pellegri­ni a gruppi si dirigono sal­modianti verso il santua­rio dove è conservata la statua di san Domenico .

L’attenzione di tutti è at­tratta tuttavia dai “serpari” del luogo i quali con variopinti ofidi attorciglia­ti al collo ed alle mani  su­scitano una generale meraviglia non priva di arcaici timori

Sono essi i veri ere­di del sacerdote “Umbrone”, il marso «incantator di serpenti» descritto da Virgilio nel VII libro dell’Eneide, ed i grandi prota­gonisti della fetta.

Spetta ai “serpari” ìnfatti l’onore di avvolgere glì ofìdi alla statua del santo, allorché, finita la messa solenne di mezzogiorno, sarà condot­ta in processione per le vie del paese. Avviene talvol­ta che dalla statua, simile nell’aspetto ad una divini­tà inferica anguicrinita, ca­dano alcuni rettili provocando squarci improvvisi fra la folla atterrita. Lo sgomento però dura solo alcuni attimi e subito riaf­fiora la fiducia nel potere di san Domenico, che im­munizza i fedeli dal morso degli ofìdi velenosi e dei cani affetti da rabbia.

Nella processione il par­roco precede la statua re­cando solennemente un ostensorio in cui è custodi­to il cosiddetto “sacro den­te”, cioè un noia re che il santo monaco si sarebbe cavato dì bocca e che avrebbe donato alla popo­lazione di Cocullo per im­munizzarla dal morso dei “denti cattivi”, quelli ap­punto dei vi pendi e dei ca­ni affetti da rabbia.

E’ inte­ressante notare, come atte­stano alcune relazioni ve­scovili del XVI secolo, che il patronato antirabbico  esercitato da san Domeni­co è anteriore a quello an­tiofidico.

Al santuario sì recavano infatti tanti devoti  sia per guarire dalla rabbia sia per immunizza­re da tale morbo i cani da caccia mediante il tocco  del “sacro dente”.

La presenza del “sacro dente” è pertanto alla base della leggenda di fondazio­ne dei due patronati antirabbico ed antiofidico, fondati sul principio magico-religioso che “il dente buono scaccia il dente cat­tivo”. Esso ha generato di riflesso un altro singolare patronato esercitato da san Domenico, quello an­tiodontalgico. Nel santua­rio infatti i devoti afferra­no con i denti la cordicella di una piccola campana e con alcuni strappi la fanno tintinnare nella convinzio­ne che non soffriranno più a causa di mal di denti.

Il “dente cattivo” per ec­cellenza resta comunque quello del serpe venefico. Simbolo delle forze vitali sempre rinnovantisi, delle anime dei defunti, delle er­be medicamentose e per­ciò sacro ad Esculapio, l’ofide degrada attraverso un costante processo di spo­liazione di valori codifica­ti dal mondo classico da uno status di cultura a quello di natura, raggiun­gendo con il Cristianesimo il massimo grado di nega­tività come simbolo del peccato originale ed im­magine del demonio.

Donde  il dogma chiesastico: dracus qui est diabolus Nella società rurale del-l’Appennino l’ofide si pre­senta invece sradicato dal fecondo humus religioso del mondo mediterraneo e della stessa Roma, come attestano Virgilio, quando parla nell’Eneide dei Mar­si, e Plinio nella Naturalis Historia. Il serpe costitui­sce un rischio reale e co­stante per l’uomo e gli ani­mali da pascolo, anche quando non è velenoso. Il “cervone” per esempio, as­sai diffuso nell’acrocoro abruzzese, è un ofide inno­cuo ma attenta all’econo­mia del gruppo poiché possiede la straordinaria capacità di avvinghiarsi dolcemente alle poppe del­le mucche e di privarle completamente del latte.

L’ofìde diventa cosi un emblema del negativo esi­stenziale ed apporta ango­scia anche nell’attività onirica. Il rituale .che si rinnova oggi a Cocullo è dunque un vero psico­dramma preposto ad esor­cizzare un evento temuto mediante il maneggiamen­to indenne dei rettili. Il su­peramento del timore e della naturale repulsione per gli ofidi avviene nel corso di una finzione ri­tualizzata in cui san Do­menico appare dominato­re della natura ferina e «Si­gnore degli animali». Una figura che si credeva com­pletamente scomparsa nel­l’orizzonte culturale della nostra società.

Franco Cercone

(articolo pubblicato su “Il Messaggero” , Roma 2-5-2002)

 

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