Il silenzio secolare sulla scuola di Zahrtmann a Civita d’Antino. Le ragioni dell’oblio.

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L’Abruzzo venne definito da Giorgio Manganelli «grande produttore di silenzio», alludendo ad una vita perduta, appartata e scostante, ad una terra isolata.

Ma avvicinandoci alla singolare storia della scuola d’arte danese di Civita d’Antino[1],  credo sia necessario andare oltre questa etichetta, per cercare di capire quali ulteriori circostanze abbiano portato a dimenticare un paese e la sua straordinaria stagione artistica, che si sviluppò nella seconda parte dell’800 nel piccolo borgo della montagna abruzzese, per anni al centro dell’intensa attività del pittore Kristian Zahrtmann, maestro di generazioni di artisti provenienti dall’intera Scandinavia.

Il terremoto del 1915 ebbe certamente riflessi catastrofici per il paese e per il territorio, con effetti che andarono oltre i morti e la distruzione.

E’ purtroppo un altro terremoto, quello che ha colpito il 6 aprile 2009  L’Aquila e l’Abruzzo interno, ad indurci a riflettere sulle sorti di Civita.

Credo sia utile il richiamo ad un interessante articolo sul New York Times dell’11 aprile 2009,  con il titolo “Dove la cultura è un’altra vittima”, in cui il giornalista Michael Kimmelmann spiegava ai suoi lettori come oltre al dramma delle vittime, andassero considerati i riflessi del sisma – soprattutto in un paese come l’Italia – sul patrimonio culturale, tenuto conto che “l’Italia non è come l’America .. è un fatto di vita quotidiana che unisce patria e storia. Gli italiani non visitano molto i musei, è vero, perché già ci vivono dentro e non possono viverne senza”. Il sisma del 2009 è stato connotato da una particolare attenzione dei media di tutto il mondo, sin dal giorno successivo al 6 aprile, quando lo stesso New York Times, come altri importanti quotidiani, parlò di “danni significativi ai monumenti storici”, facendo propria l’opinione che “ciò che rischia di essere perduto è un punto di riferimento alla cultura europea”.

Anche Paul Kreiner sul quotidiano tedesco Tagesspiel del 16 aprile 2009, osserva, allargando l’orizzonte oltre l’Aquila, che “L’Abruzzo non è una regione dalle opere d’arte spettacolari come magari la Toscana. Ma nelle montagne ci sono borghi, monasteri, castelli mozzafiato e valli quasi inaccessibili: una terra romanica, dal basso medioevo terra dei monaci benedettini…”.

I richiami al tema, che potrebbero essere tanti[2], sono utili per inquadrare e comprendere i riflessi catastrofici di un altro terremoto, che un secolo fa, il 13 gennaio 1915, colpì ancor più duramente l’Abruzzo, devastando in particolare la Marsica, causando oltre 30mila morti e riducendo in macerie Avezzano e molti paesi limitrofi, compresi quelli della Valle Roveto fino a Sora, cancellando case e palazzi, chiese e monumenti.

Sotto quelle macerie finì per molti versi anche la straordinaria storia del pittore Kristian Zahrtmann e della sua scuola d’arte di Civita d’Antino, aperta per oltre trent’anni ad artisti provenienti dall’intera Scandinavia.

L’artista giunse a Civita nel 1883, proveniente da Sora. Sarebbe stato un giovane modello del paese, Ambrogio, a suggerire la località ad oltre 900 metri di altezza, per la bellezza del suo paesaggio, una sorta di terrazza panoramica circondata  dai monti e per l’ospitalità semplice della sua gente.

Per comprendere il possibile impatto di Zahrtmann con il paesaggio di Civita d’Antino e della Valle Roveto riprendo alcuni  stralci delle  poetiche e puntuali descrizioni di un anonimo viaggiatore inglese[3] che giunse nei medesimi luoghi quasi mezzo secolo prima, anch’egli proveniente da Sora.

Si tratta di preziose impressioni, soprattutto perché inquadrano la valle e la stessa Civita d’Antino nella geografia del territorio pre-terremoto del 1915.

“Il fascino che ci attira a visitare le province dell’Abruzzo sta nel modo in cui la natura ci guarda, nelle loro foreste, le loro montagne, i loro precipizi, i suoi impetuosi torrenti e nelle sue storie sui briganti. Per più di venti miglia in salita – proprio vicino alla sorgente del fiume – dovevo percorrere la valle che riceve l’acqua del Liri che, sopra Sora, si chiama Val di Roveto.

La sagoma del paesaggio è dolce, ondulata e varia. All’improvviso tutta l’ampiezza della valle si distende in una pianura verde, a volte le colline protendono braccia lunghe giù nel vuoto o qua e là ci sono rilievi tonde erbose e in uno o due punti i monti si aprono in gole erti che si sviluppano lateralmente verso l’alto nel cuore delle montagne.

Le montagne sono erbose fino in cima, sporadiche foreste ondeggiano ai pendii in alto e nelle vallate ci sono campi di grano, vigneti e uliveti in fiore; spesso si vedono grandi faggi vicino al fiume e diversi boschetti di vecchie querce, splendide nella loro forma e grandezza, tra le più belle che ho visto in Italia.

La vallata consiste principalmente in terreno coltivato e non è molto abitata.  Quasi non ci sono delle case isolate, ma un buon numero di piccoli borghi e diversi villaggi.

In tutta la giornata ho incontrato meno di una dozzina di viaggiatori.

Guardando giù a valle abbiamo un paesaggio che in questo momento è straordinariamente bello. La sua bellezza è creata dalla luce tenue e dalle dolci sfumature del tramonto. La matita non potrebbe descrivere né il trasparente specchio del fiume, né le collinette boscose, né i dolci pendii della montagna erbosa. In alto sulla montagna, al lato sinistro del fiume, c’è una chiesa, una torre e un gruppo di case tra gli alberi. E’ Civita d’Antino, un paese di cui si dice di possedere qualche antichità e di essere il sito di un’antica città marsicana, degna di nota.

Zahrtmann, come altri artisti del suo tempo, nel viaggio in Italia cercava di arricchire la sua formazione, anche scoprendo luoghi diversi da Roma, superando la campagna romana, verso le montagne abruzzesi ancora circondate da un’immagine misteriosa, ma anche dal fascino di paesaggi aspri e pittoreschi, dai miti legati al brigantaggio e alla sopravvivenza di antiche usanze e credenze popolari.

Non è comunque da escludere che Zahrtmann avesse percepito l’immaginario legato all’Abruzzo attraverso letture e contatti personali.

L’Italia è stata a lungo frequentata da generazioni di artisti danesi, che descrissero   nel proprio paese luoghi, i paesaggi e meraviglie che si presentavano ai loro occhi.

Si sostiene che Zahrtmann pima di scendere per la prima volta in Italia volle recarsi a salutare il poeta e scrittore H.C. Andersen, che annotò appena tre parole sul suo diario “Zahrtmann è partito[4], quasi presagendo l’inizio di una nuova vita per l’artista, dando per implicita la destinazione del grande viaggio.

Roma, in particolare,  divenne luogo di elezione, soprattutto nella prima parte dell’800, quando attorno al celebre scultore Bertel Torvaldsen, che rimase in Italia per quasi quarant’anni, si creò una vera e propria comunità di artisti danesi.

I riflessi nel tempo  di questo interessante fenomeno culturale conseguente alla presenza in Italia di tanti artisti venuti dal nord, sono tangibili ancor oggi in Danimarca.

E’ stato opportunamente rilevato che “una scorsa attraverso le gallerie danesi, dove è finita la maggior parte delle loro opere, dimostra chiaramente come i soggetti italiani sono i più numerosi dopo quelli danesi”.[5]

Si sa anche  che da giovane studente Z. abbia frequentato la casa dello scrittore e poeta B.S. Ingemann (1779-1862), il quale durante il suo lungo soggiorno in Italia dedicò, tra l’altro, una poesia agli zampognari delle montagne abruzzesi; potrebbe inoltre aver conosciuto l’opera di Edward Lear, descrittore e illustratore dell’Italia, che durante il soggiorno romano nel periodo 1837-1848 – intervallato da numerosi viaggi (anche in Abruzzo, che descrisse figurativamente con 30 litografie e numerosi schizzi) – frequentò prevalentemente la comunità artistica danese, stringendo amicizia con diversi artisti, tra cui Wilhelm Mastrand.  D’altra parte Lear, era nato a Londra, ma le origini della sua famiglia erano pure danesi.

Ancora più immediato e plausibile è il richiamo all’artista e scultore danese Henrik Olrik (1830-1890), che durante il suo vaggio in Italia, toccò anche Civita d’Antino. Un suo quadro raffigurante un vigneto in primo piano, con lo sfondo del paesaggio della valle è datato 1877.

Zahrtmann giungerà a Civita soltanto sei anni dopo. Altri riscontri hanno permesso di verificare come il figlio di Olrik, Dagmar (1860-1930), sia tornato in Abruzzo  come allievo di Zahrtmann nell’anno 1897.

Quali siano state le circostanze specifiche che portarono Z. a raggiungere Civita d’Antino all’inizio dell’estate del 1883, quello che è certo è che si stabilì subito un rapporto intenso tra il maestro danese e quella piccola comunità, che allora contava circa duemila abitanti, a partire dai proprietari della pensione Cerroni, in cui prese alloggio, trovandosi come a casa, accolto da un ambiente familiare. Vi tornò per molti anni, accompagnato sempre da vecchi e nuovi allievi, oltre che da artisti amici. Divenne nel tempo la “casa dei pittori danesi”, sede della sua scuola estiva italiana.

Il paese, un balcone panoramico tra i monti, non visibile dal fondo valle, rappresentò per lui l’occasione per sentirsi fuori dal mondo, a contatto diretto con la natura e lontano dalle sue vicende familiari e  dall’elite degli artisti della sua Danimarca, che lo vedevano allora in contrapposizione con le prevalenti linee educative dell’Accademia di Copenaghen. Provenendo dalla Danimarca, dove l’altitudine più elevata non supera i duecento metri di altezza, fu attratto dalle montagne, che circondano a 360° il paese, non solo per la loro varietà, ma anche per la percezione di una millenaria influenza dell’opera dell’uomo, che nel tempo aveva realizzato l’antico borgo con le sue porte di ingresso, che coesisteva con reperti archeologici e ruderi dell’originaria cinta muraria dell’antica Antinum, l’antica torre di guardia, la chiesa di S. Stefano, il nascosto eremo della Madonna della Ritornata, riferimento spirituale delle comunità dell’intera valle. E poi i sentieri, i colori dei campi coltivati a grano, i vigneti, gli spazi destinati al pascolo, che riempivano di vita il piccolo mondo di Civita.

Il paese si trasformò in una sorta di laboratorio dove si dipingeva “en plein air” dalla mattina al tramonto, mentre la comunità locale viveva intorno agli artisti la sua quotidianetà, con l’andirivieni delle donne che attingevano l’acqua con le conche alla fontana fuori di Porta Flora, i bambini giocare, contadini intenti al lavoro nei campi, pastori al pascolo, parroci in preghiera, ma anche ricorrenze religiose e riti tradizionali.

Giovani donne si trasformarono in modelle, mantenendo i propri consueti costumi, semplici e ricchi di colori, posando secondo le indicazioni del Maestro. E bastava alzare appena gli occhi per allargare l’orizzonte luminoso alla corona di monti della valle Roveto, finito spesso su tante tele.

Il paesaggio è uno stato d’animo”, scrisse il filosofo svizzero Henri Fredric Amiel.  L’impatto del paese e delle sue montagne su Zahrtmann fu immediato, come traspare con evidenza da alcune sue prime lettere, di cui richiamo qualche stralcio: “Sto comodissimo nel mio appartamento privato … e poi ho tutti i modelli che posso desiderare” (21 giugno 1883), “Sono innamorato della montagna e del carattere che dona alla gente che la abita” (22 giugno 1883), “Mio Dio come sto bene qui !” (1°agosto 1883), “Qui è davvero incantevole. Adesso i faggi si tingono di giallo e rosso tutt’intorno sui monti. Il colore di essi, argenteo e striato di lavanda, contrasta i colori vellutati dei faggi. E poi dovresti vedere l’uva nella vallata, foglie gialle chiare – con la tonalità dello zolfo, e l’uva che pende viola, piena. Siamo in mezzo alla vendemmia” (11 dicembre 1883).

Zahrtmann trovò le condizioni più favorevoli per una intensa stagione creativa, nella quale il suo crescente successo artistico corrispose alla parabola ascendente di Civita d’Antino, che era allora un paese che contava circa duemila abitanti.

Nel 1895 Zahrtmann partecipò, insieme a P.S.Krøyer,  alla prima edizione della Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (in seguito, Biennale di Venezia), con alcune opere, tra cui “La processione di San Lidano”, rito legato al santo nativo di Civita d’Antino. La loro presenza non sfuggì a Gabriele D’Annunzio, che scrisse all’amico Francesco Paolo Michetti esprimendo il suo giudizio fortemente critico sulle numerose opere esposte, salvando soltanto il quadro dello stesso Michetti e  “la sincerità di certi scandinavi e danesi”.[6]

I legami con il paese abruzzese si andarono sviluppando nel corso degli anni, portando il comune di Civita d’Antino a conferirgli la cittadinanza onoraria nell’anno 1902.

L’immensa produzione artistica indusse il maestro a promuovere nella capitale danese una mostra interamente dedicata alla sua scuola estiva italiana, con opere proprie e di suoi amici e allievi, per suggellare i 25 anni di legami con il paese abruzzese.

Il catalogo della “Collezione selezionata tra le opere realizzate a Civita d’Antino dei pittori danesi”, raccolse la descrizione delle 124 opere esposte, distinguendole per annata, con l’indicazione del titolo e dei 24 autori.[7]

La mostra, che vide la luce presso il Kunstforeningen di Copenaghen nei mesi di febbraio e di marzo del 1908,[8] rappresentò un evento senza precedenti nei processi culturali legati al Grand Tour, con la favola del piccolo paese  italiano, divenuto ormai familiare in Danimarca e descritto in ogni suo particolare, anche con letture diverse, riflesso delle personali interpretazioni dei singoli artisti. Il Maestro, ormai all’apice della sua maturità artistica, esaltò la “Civita d’Antino dei pittori danesi”, vetrina della sua scuola, tralasciando la più scontata ipotesi di dedicare la mostra all’Italia, pur avendo realizzato anche opere ispirate ad altre più famose località italiane, tra cui Portofino, Pistoia, Sora, Ravello.

In quegli stessi anni, nella capitale danese avviò la costruzione della sua nuova casa-studio, che volle chiamare “Casa d’Antino”, come una targa esterna ricorda ancora adesso. Attratto dal fascino del mondo classico,   riportò anche l’antico motto italico dei Marsi “Nec sine, nec contra”. Ancora una manifestazione evidente del costante pensiero rivolto a quel lontano paese tanto amato.

Nel 1910 non dimenticò i poveri di Civita nel suo testamento. Nello stesso anno fu proclamato presidente onorario della Pro-Antino, una delle più antiche pro-loco italiane, il cui presidente era Filippo Ferrante, allora anche sindaco di Civita.

Sin dal 1906, risultò avviata una raccolta di fondi per “migliorare la bellezza del paese”, dando concretezza alle idee di Zahrtmann, che concorse finanziariamente, a far piantare alberi nella piazza principale e nel piazzale nella quale si trova la fontana e il lavatoio pubblico, oggi dedicata al maestro danese.

Il ritorno in Abruzzo nell’estate del 1911, coincise con la partecipazione di Zahrtmann e altri artisti della sua scuola all’Esposizione d’Arte Internazionale di Roma, evento inserito nel programma di manifestazioni per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia.

Ma quella non fu un’estate spensierata e creativa come tante altre. Il 24 agosto 1911 morì improvvisamente il  pittore svedese Anders Trulson, giunto già malato a Civita. Era stato lo stesso maestro a consigliare il viaggio a Trulson, suo allievo diversi anni prima, sperando fosse utile per la sua salute.

L’intero paese accompagnò Anders Trulson nel suo ultimo viaggio verso l’antico cimitero napoleonico[9], situato lungo l’antico sentiero italico. Zahrtmann nei giorni successivi concluse la singolare e lunga teoria di stemmi che lui stesso avviò molti anni prima per personalizzare goliardicamente la presenza dei singoli artisti in Casa Cerroni, dipingendo l’89° stemma dedicato al giovane pittore svedese.

Nella stessa sala Zahrtmann volle aggiungere un messaggio che aveva un evidente  significato di congedo e di ringraziamento della famiglia Cerroni a nome degli artisti scandinavi.

In effetti quella triste estate del 1911 fu l’ultima di Zahrtmann a Civita, anche se qualche suo allievo non smise di tornare in quel lontano paese tra le montagne dell’Appennino.

Anche in quel terribile 13 gennaio 1915, il giorno del sisma, si trovava a Civita un giovane pittore, Daniel Hvidt. Sarà lui a guidare il poeta e scrittore Johannes Jørgensen  tra le rovine di Civita.

Jørgensen, in quel periodo a Siena, alla notizia del terremoto in Abruzzo si precipitò a Roma, per affittare un auto per recarsi nel paese caro ai danesi.

Jørgensen non era mai stato prima a Civita, eppure  mostra di muoversi agevolmente per il paese martoriato, riconosciuto attraverso i quadri che aveva visto in precedenza e commuovendosi davanti agli stemmi di casa Cerroni, “in cui sono scritti tanti nomi di pittori tra i migliori della Danimarca”.

La sua testimonianza è tra le più emblematiche per capire la funzione dell’arte come ponte capace di mettere in contatto culture completamente differenti fra di loro.

Il suo drammatico racconto fu pubblicato nei mesi successivi con il titolo “Civita d’Antino”, con l’evidente funzione di informare in modo diretto i danesi del dramma vissuto dal paese e la sua gente. Anche la scelta del titolo, che richiama semplicemente il nome del paese, rappresenta un ulteriore aspetto che permette di comprendere quanto fosse nota allora la Civita di Zahrtmann, la Civita dei danesi.

L’edizione italiana del racconto uscì nel 1931, con un titolo “Nella terra di sorella morte”, probabilmente suggerito dallo stesso Jørgensen, considerato che l’evocazione francescana della morte, cara al grande biografo del Santo, costituiva anche un modo per evitare il titolo originario, in quanto paradossalmente il paese era ben noto in Danimarca ma del tutto sconosciuto in Italia.

Il terremoto devastò la Marsica,   provocando ovunque morte e di distruzione. Anche Civita fu segnata da 41 morti, molti feriti, con macerie ovunque. E’ lo stesso Jørgensen a rassicurare i suoi lettori che la Casa Cerroni e Palazzo Ferrante, non avevano subito danni irreparabili, come purtroppo la chiesa di Santo Stefano, crollata come moltre altre case, anche se il paese era da considerare perduto per sempre.

Già nei giorni successivi al sisma, una parte della popolazione ritenne di scendere a valle, nelle immediate vicinanze della stazione ferroviaria, attiva solo da qualche anno, o nelle immediate vicinanze, in quella che diventerà poi la popolosa frazione di Pero dei Santi. Altri emigrarono a Roma o all’estero, seguendo le tracce di precedenti flussi migratori.

Il quadro drammatico veniva a coincidere con l’entrata in guerra dell’Italia, che mise in second’ordine l’opera di ricostruzione.

Il paese iniziò il suo lento e inesorabile declino, e lo stesso Zahrtmann morì due anni dopo.

Come altri paesi della montagna abruzzese, Civita conosce da tempo un declino inarrestabile che l’ha trasformata in un paese fantasma, in cui vivono stabilmente poche decine di abitanti, legati al proprio paese, ma forse anche rassegnati alla sua sorte. I campi coltivati e i vigneti sono rintracciabili solo nei quadri del periodo d’oro.

Al silenzio che accompagna il visitatore tra le strade deserte del paese, si accompagna l’oblio che ha avvolto negli anni Civita d’Antino, quasi scomparsa dalle carte geografiche e dimenticata da libri  e pubblicazioni, anche locali, in cui mancano pur brevi richiami a quell’importante stagione.[10]

Eppure nel 1999 un’importante mostra dedicata a Zahrtmann viene organizzata in Italia. E’ Pistoia a riscoprire l’importanza simbolica dell’unico quadro che il maestro danese realizzò in quella città. La mostra fu integrata da numerose opere recanti i paesaggi di Civita d’Antino, provenienti dai musei scandinavi.

In questi ultimi anni Zahrtmann e la sua scuola, ancora ricordati in  Danimarca in ambito artistico, stanno riemergendo progressivamente anche nel “suo” Abruzzo, con studi, ricerche e piccoli eventi, grazie soltanto all’impegno appassionato di pochissime persone.

Da questi scenari di indifferenza, va distinto il ruolo coraggioso e lungimirante assunto dalla Fondazione Pescarabruzzo nel riportare in Italia gran parte delle opere visibili in questa mostra, infrangendo un secolare silenzio e colmando un vuoto imbarazzante.

Soltanto grazie a questi quadri, e quindi alle magiche interpretazioni di Zahrtmann e degli altri artisti scandinavi, è possibile percepire, a distanza di tanto tempo, l’emozionante illusione di un paese che ritorna vivere, insieme alla sua gente. Ma le stesse opere rappresentano, in chiave esponenziale, la scomparsa bellezza del paesaggio legato al mondo contadino e pastorale dell’intero Abruzzo interno.

 

Antonio Bini

 

(Su gentile autorizzazione del dott. A. Bini, tratto da catalogo mostra “Impressionisti danesi in Abruzzo”, Museo Andersen, Roma 31 marzo – 2 giugno 2014)

 

 

 

 

 

 

 



[1]              Cfr. Hanne Honnes De Lichtenberg, Zahrtmanns Skole, ed. Forum, 1978;

[2]              Cfr. A. Bini, “Dove la cultura è un’altra vittima”, in D’Abruzzo, trimestrale di turismo, cultura e ambiente, estate, n. 86, 2009, p. 11 ss.;

[3]              L’articolo “Eith days in  the Abruzzi” fu pubblicato nel 1835 sulla rivista Blackwood’s Edimburgh Magazine nel 1835. La traduzione integrale del racconto è  compresa nell’appendice del libro di A. Bini, “Li chiamavano pifferari, Zampognari mito dell’Abruzzo pastorale”, ed. Menabò, Ortona, 2013, p. 89  ss.;

[4]              Cfr. K.. Murhart, “La luce dell’Abruzzo ha influenzato l’arte danese”, in “L’Italian dream di Kristian Zahrtmann”, a cura di A. Bini, ed. Menabò, Ortona, 2009, pp. 84,85;

[5]           Harald Peter Olsen, “Roma com’era nei dipinti degli artisti danesi dell’Ottocento”, Newton Compton, Roma, 1985, p. 14;

[6]              A. Bini,, D’Annunzio scoprì la scuola di Zahrtman a Venezia (1895), in Il Lungo viaggio dal nord, a cura di Culture Tracks, ed. Fondazione Pescarabruzzo, Pescara, 2009, p. 11 ss.;

[7]              L’evento è stato ricordato ad un secolo di distanza presso l’Antica Osteria Zahrtmann di Civita d’Antino, con una cartolina e un  manifesto commemorativi ideati dall’Ass. Culture Tracks di Pescara – http://www.civitadantino.com;

[8]              cfr. A. Bini, L’Italian dream di Kristian Zahrtmann, ed. Menabò, Ortona, 2009, p. 92 ss.; Non è da escludere che l’inizativa fosse anche una risposta al cenacolo artistico di Skagen, che ruotava attorno a M.Ancher e P.S. Kroyer;

[9]              L’importanza anche simbolica dell’antico cimitero è stata per la prima volta approfondita da S. Bini in “La memoria di una città invisibile”, cfr. Anders Trulson è qui: breve storia del pittore svedese rimasto per sempre tra le montagne abruzzesi”, di A. Bini e S. Bini, ed. Menabò, Ortona, 2009, p. 55 ss.;

[10]         Nemmeno un cenno fugace, ad esempio, compare nella ponderosa “Guida turistica della provincia di L’Aquila” di circa cinquecento pagine, edita dalla stessa Amministrazione Provinciale dell’Aquila nel 1999.

 

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