Il Culto di sant’Antonio Abate in Abruzzo
Nonostante le profonde trasformazioni socio-economiche verificatesi nell’arco di mezzo secolo, il modello ottimale di vita resta legato in Abruzzo – specie in questo momento di crisi- ai valori espressi dal mondo rurale e considerati per quanto concerne il settore dell’alimentazione fondamentali ed irrinunciabili.
Spie di questa Weltanschauung sono la ricerca di “ricette” tradizionali – semplici nell’esecuzione ed a base di ingredienti sani e genuini – e la richiesta costante di prodotti caserecci legati al mondo contadino. Il fenomeno va inquadrato indubbiamente nel complesso processo di “ricerca di una nuova identità culturale” che va sotto il nome di “Nativismo” e si esprime nella “rivalutazione della propria storia, delle proprie tradizioni o della propria cultura”.
I fattori cui abbiamo fatto cenno in precedenza ci permettono di comprendere i motivi della riscoperta di una festa essenzialmente rurale, come appunto quella di S. Antonio Abate.
Essa si svolge a partire dal tardo pomeriggio della vigilia (16 gennaio) per concludersi il 17 (dies natalis del Santo) fino a notte fonda, fra un tripudio di canti, suoni e sacre rappresentazioni (“Le Tentazioni di S. Antonio”) messe in scena anche nell’entroterra ortonese da bande giovanili fino alla fine di gennaio, con spirito meramente ludico ma senza rendersi conto del profondo significato storico-antropologico che hanno tali rituali. In alcune località si svolgono inoltre sfilate di “maschere”, poiché, com’è noto, il 17 gennaio segna anche l’inizio del periodo di carnevale.
La festività di S. Antonio Abate, meglio conosciuto nel mondo rurale abruzzese come Sant’Andònie de jennàre o de lu porche è ricca di riferimenti sociali e religiosi nonché di significati antropologici che meritano di essere analizzati anche sotto il profilo storico.
A tal riguardo va in via preliminare ricordato che sull’argomento esiste un fondamentale studio del compianto Alfonso Maria Di Nola, con il quale noi abbiamo collaborato nel suo periodo di docenza all’Università di Arezzo nella registrazione dei Canti di questua e nelle inchieste condotte sul campo in varie località abruzzesi, confluite nel saggio Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana ( Boringhieri, 1975).
Sant’Antonio, come è noto, è rappresentato specie nelle immagini votive attorniato da molti animali da cortile, fra cui il maiale, definito da sempre ‘la grascia’ e la ricchezza della casa contadina. Del pingue animale infatti non si buttava nulla e le stesse setole venivano utilizzate per la confezione di pennelli da barba.
Ma chi era questo Santo, chiamato in molte località lu varvùte (il barbuto), perché raffigurato con una lunga barba che gli scende fino al petto? Antonio è un eremita nato a Koma in Egitto nel 251 e morto in un convento nei pressi del Mar Rosso nel 356. Di lui abbiamo una biografia redatta da un monaco dello stesso Convento, Atanasio, nella quale Sant’Antonio tutto appare fuorché protettore degli animali domestici, considerati dal Santo eremita creature del demonio che inducono in tentazione gli asceti o comunque coloro che si ritirano in luoghi deserti, più consoni ad un colloquio diretto fra l’uomo e Dio.
Ora nell’Europa occidentale questa realtà viene completamente sconvolta e Sant’Antonio diventa una specie di Signore degli animali in base ad un episodio agiografico che può essere così riassunto. Alla fine dell’XI secolo le reliquie del Santo, che nel frattempo erano state trasferite a Costantinopoli, erano state trasferite in Francia nella diocesi di Vienne (e precisamente in una cittadina che ancora oggi si chiama Bourg Saint’Antoine) da un nobile pellegrino, Gastone, che scioglie così un voto da lui fatto per la guarigione miracolosa di suo figlio. Ma non è tutto. Egli infatti organizza nell’ambito del locale convento dei Benedettini una comunità ospedaliera laica che ne accettava la Regola ed indossava una tonaca sulla quale era cucita la lettera Tau, diciannovesima dell’alfabeto greco, di color celeste, simbolo della potenza di Sant’Antonio. Sorse così nel 1297 l’ordine questuante degli Antoniani, il quale si richiamava alla regola di Sant’Agostino e si diffuse in seguito per tutta l’Europa.
Una singolare specializzazione terapeutica degli Antoniani era quella di curare l’ergotismo cancrenoso, detto “ignis sacer” o fuoco di Sant’Antonio, mediante il grasso di maiale misto ad alcune erbe. Questa terribile malattia, che “divorava come il fuoco” soprattutto gli arti inferiori, destinati perciò spesso all’amputazione, era causata da un fungo che si sviluppava nella farina di segale cornuta, largamente impiegata nel basso medioevo dai ceti rurali ed indigenti per confezionare il loro pane quotidiano. Il pane di grano, o ‘bianco’ è stato infatti fino agli albori dell’Unità d’Italia una sorta di ‘sogno proibito’ per i ceti subalterni ed ancora oggi, in molti paesi della Maiella, per indicare che una persona è moribonda si dice che ‘l’hanno messa a pane bianco’ ( o ‘di grano’).
Sicché le comunità rurali provvedevano ad allevare i maiali, fornendo agli Antoniani il prezioso grasso con cui i frati curavano l’ergotismo, all’epoca epidemico.
Cominciano a diffondersi le prime immagini che raffigurano sant’Antonio con un porcellino ai suoi piedi e che, ancora nel XVII secolo, creavano non lieve imbarazzo ai teologi della chiesa di Roma, i quali non riuscivano a spiegarne i motivi.
Nella prima metà dell’800, con lo sviluppo dell’arte grafica, i santini prodotti in serie con l’immagine di Sant’Antonio si diffondono ovunque e data la struttura prevalentemente rurale della nostra società, non v’era una stalla che ne fosse priva, dovendo il Santo esercitare il suo patronato sia sulla peste suina che contro gli incendi.
Fin dal periodo medievale, i cosiddetti porci di Sant’Antonio andavano in giro liberamente, allevati per devozione dalle comunità, anche se alcuni Statuti Comunali, per motivi igienici, lo vietavano espressamente. E’ interessante notare che in alcuni paesi abruzzesi vige ancora l’usanza di acquistare il 17 gennaio un maialino che viene nutrito dalla comunità e custodito di notte in una stalla o in un altro locale idoneo. Poiché a livello psicologico si instaura una simbiosi fra il Santo ed il porco, il ricovero dell’animale costituisce un privilegio e viene ritenuto una speciale benedizione di Sant’Antonio da parte della famiglia, proprietaria della stalla o del ricovero notturno.
L’anno successivo il maiale, ben ingrassato, viene venduto all’asta ed il ricavato è destinato a coprire le spese sostenute dal comitato che organizza la festa.
Ma come si riconosce il porcello (lu purchìtte) di Sant’Antonio che è allevato dalla comunità per l’intero anno? In Abruzzo sussiste una duplice tradizione ereditata da antichi rituali Antoniani: si lega al collo dell’animale un nastro rosso al quale viene appeso un campanello, oppure si recide l’orecchio sinistro del maialino, come segno di distinzione.
Quest’ultima è la consuetudine che vige ad Ateleta (AQ) ed al rituale del taglio dell’orecchio, che si svolge davanti al sagrato della chiesa il pomeriggio del 17 gennaio, partecipa il clero officiante con grande concorso della popolazione devota .
Frattanto in ogni rione si formano spontaneamente dei comitati che provvedono alla raccolta della legna. Questa è accatastata in modo da formare una grande pira che viene accesa alle prime ombre della sera. E’ un tripudio di fuochi accesi, attorno ai quali ovunque in Abruzzo si riunisce la gente festante.
Questi enormi falò hanno anche una funzione lustrale da ricollegarsi ad antichi riti di solstizio d’inverno. In alcune località i fuochi di S. Antonio sono accesi la sera della vigilia della festa, cioè il 16 gennaio. A Fara Filiorum Petri (Ch.) vengono costruite come è noto a cura di ogni contrada delle enormi torce rivestite di canne secche, larghe 2 metri ed alte talvolta più di dieci, che assumono il nome di farchie. Esse vengono disposte mediante funi in posizione eretta in modo da sembrare delle possenti torri .
I centri della Marsica, del medio ed alto corso del Sangro e dell’alto Vomano vanno annoverati fra quelli in cui la festività di S. Antonio Abate è particolarmente sentita.
Per l’occasione viene lessato il granturco, che assume il valore di cibo sacrale come le panette di S. Antonio. I chicchi vengono chiamati per lo più granati o cicerocchi, e ripassati talvolta in padella con olio e peperoncino vengono offerti devotamente nella giornata del 17 gennaio ad amici e parenti.
La costumanza, assai viva in alcuni paesi dell’area della Maiella, ha tuttavia radici non molto antiche e si ricollega storicamente in Abruzzo a periodi successivi all’introduzione della coltivazione del mais (“grano d’India”, donde la voce dialettale grandinie), prezioso cereale che è testimoniato per la prima volta, alla luce delle nostre attuali conoscenze, da un documento notarile rogato nel 1720 a Casoli. Prima della diffusione del mais il rituale avveniva mediante la cottura delle fave, ritenute cibo sacrale per eccellenza. L’usanza persiste come è noto a Pollutri, dove il 16 gennaio vengono lessate le fave in capienti caldai e distribuite alla devota popolazione ed ai turisti. La degustazione del legume lessato si trasforma così in una sorta di “comunione collettiva”, pregna anche di contenuti magico-religiosi.
Non è del tutto svanita in Abruzzo la pittoresca e tradizionale benedizione degli animali che si svolge nel pomeriggio del 17 gennaio, per lo più davanti al sagrato della chiesa parrocchiale o di quella dedicata allo stesso Santo. Nella preghiera recitata dal sacerdote secondo il rituale romano, viene invocata l’intercessione di S. Antonio Abate affinché gli animali, un tempo indispensabili all’attività dei contadini sui campi, siano salvati ab omni malo, da tutti i mali, fra i quali vanno annoverati anche eventuali maltrattamenti nei loro confronti. Infatti secondo un’antica credenza, e non solo abruzzese, S. Antonio, nella notte del 16 gennaio, visita tutte le stalle e chiede agli animali se siano stati ben trattati dai loro padroni. Dopo la benedizione degli animali non tarda a scendere la sera e per gli abitanti di ogni rione si entra nei nostri paesi montuosi nel vivo della festa, con l’accensione di enormi cataste di legna, raccolta in precedenza con questua. Esse arricchiscono la simbologia del “fuoco” sottoposto alla signoria di S. Antonio Abate e richiamano antichissimi riti solari nel periodo del solstizio d’inverno.
Frattanto attorno ai “focaracci” si degustano con il vino i salumi confezionati a gennaio, mese in cui avviene di norma l’uccisione del maiale, e che risultano già sufficientemente essiccati dalla fredda temperatura invernale. Si diffonde così un’allegra atmosfera di festa, che si protrae generalmente fino alle prime ore del giorno successivo.
Nelle case tuttavia resta sempre qualcuno, in attesa dei giovani questuanti che davanti alla porta intonano un “canto di questua” ed eseguono una sacra rappresentazione denominata per lo più “Le tentazioni di S. Antonio”.
Gli “attori” principali ( oltre al Santo eremita che si presenta con saio e barba molto lunga di stoppa) sono i cosiddetti “Romiti” (cioè eremiti) camuffati come S. Antonio, il diavolo (con corna e vesti rosse) ed alcune ragazze vestite da angeli. Una di esse rappresenta di norma il “diavolo tentatore” in vesti femminili.
I canti eseguiti dal gruppo questuante vertono sui tentativi operati dal demonio per indurre il Santo al peccato o per metterne a dura prova la pazienza. I testi di tali canti presentano di luogo in luogo vistose ‘varianti’ sia sotto il profilo musicale che nei testi dialettali.
Alla fine è sempre S. Antonio a spuntarla ed il diavolo, malgrado le sue perfide e continue tentazioni, resta sempre sconfitto. Il bene trionfa così sul male e la vittoria del santo sul demonio diventa propiziatoria anche per la casa e pregna di rassicuranti auspici.
Il padrone ripaga il gruppo questuante con beni alimentari, oggi sostituiti per lo più da una somma di denaro.
Abbiamo descritto così solo alcuni tasselli del complesso mosaico devozionale relativo al culto di Sant’Antonio Abate nelle nostre contrade. Essi ci permettono comunque di riflettere sugli aspetti antropologici dei rituali, che i nostri ragazzi dovrebbero conoscere, giova ripeterlo, grazie anche all’ausilio della scuola… Ma ‘ A bon entendeur, salut !’.
Franco Cercone
(su autorizzazione dell’autore, articolo già apparso sulla stampa nazionale)
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