John Fante

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In John Fante di abruzzese non c’è niente, ma c’è tutto l’Abruzzo”! In questa frase di Francesco Durante, critico e traduttore di Fante, possiamo dire sia racchiusa tutta l’opera, ma soprattutto la personalità di John Fante.

Muore l’8 maggio 1983, dopo una vita che oggi, parafrasando una nota canzone, definiremmo “spericolata”!

Per capire meglio il personaggio possiamo partire dagli ultimi anni della sua vita.

Nel 1979, a seguito delle complicanze del diabete, malattia di cui soffriva dagli anni ’50 e che mal aveva curato, divenne totalmente cieco, mentre aveva già subito l’amputazione di entrambi gli arti inferiori.

A quell’epoca era praticamente sconosciuto come scrittore, come afferma il figlio Dan, basti pensare che il suo ultimo romanzo “La confraternita dell’uva”, del 1977, aveva venduto negli Stati Uniti solo 3000 copie, mentre le sue precedenti opere erano quasi introvabili.

Sembrava destinato a morire nell’oblio, solo ed amareggiato, ricordato da pochi come promettente scrittore, ma che aveva venduto l’anima al dio denaro di Hollywood

Eppure, quando oramai tutti lo davano per perso, divenuto incapace di guadagnarsi da vivere, con i conti correnti in rosso a causa delle costosissime cure mediche e delle cinque operazioni cui era stato sottoposto, una fortuna dilapidata ed abbandonato da tutti, con un’aspettativa di vita ridotta a poche pagine di calendario, John Fante, confermando la natura bizzarra che lo aveva contraddistinto per tutta la vita, ha un estremo “battito di coda” ed inizia a scrivere il suo ultimo romanzo che detterà alla moglie Joyce.

Ed è proprio in questi ultimi anni di vita che John Fante riemerge dal limbo per entrare nell’olimpo dei maggiori scrittori americani del ‘900. Parallelamente la sua fama si diffonde in America ed Europa,  soprattutto in Italia e, successivamente, in Abruzzo, terra nella quale affondano le sue radici visto che in America è solamente nato, l’8 aprile del 1909, da padre, NicK Fante, emigrato nel 1901 da Torricella Peligna, e madre Mary Capoluongo, figlia di emigrati lucani ma nata a Chicago. Ed è a Torricellla che dal 2005 viene celebrato con un Festival letterario, “Il Dio di mio padre”, a lui dedicato.

La riscoperta di Fante e la sua ascesa agli onori della cronaca avviene grazie ad un altro scrittore – poeta celebrato del ‘900 americano, Charles Bukowski, che casualmente si imbatté in una copia oramai rara, rinvenuta presso la biblioteca pubblica di Los Angeles, di quello che viene considerato il capolavoro di Fante “Chiedi alla Polvere”. Rimase così tanto folgorato dalla storia del protagonista, Aruturo Bandini, che non poté trattenersi dal rubarne la copia, come ammise nella prefazione della ristampa del libro, e dall’affermare “Io sono Arturo Bandini”. Da quel momento iniziò un intenso rapporto tra i due scrittori, tanto che Bukowski lo omaggiò nel romanzo “Donne” del 1978 e nella poesia “Chiacchierata di pomeriggio con John Fante”.

Alcuni, come Emanuele Trevi, ritengono che l’affetto e la vicinanza del più giovane e famoso scrittore rappresentò la linfa vitale che spinse Fante alla “dettatura” del suo ultimo romanzo “I sogni di Bunker Hill”.

Questa seconda rinascita, come la definisce Trevi, dell’opera di Fante viene segnata dalla ristampa di “Chiedi alla Polvere”, nel 1983, con prefazione di Charles Bukowski, e di “Aspetta primavera, Bandini”, nel gennaio del 1983, le cui righe introduttive, scritte dallo stesso Fante, vengono viste da molti come il suo testamento letterario “Di me non resta più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre”.

Nel 1985 e 1986, a più di due anni dalla morte dello scrittore, vengono date alle stampe, per la prima volta, “1983. Un anno terribile”, che nessuno aveva voluto pubblicare quando venne scritto, e “Il mio cane stupido”, entrambi facenti parte della saga dei Molise e scritti negli anni ’60, ma rimasti inediti.

Stessa sorte avrà “La strada per Los Angeles”, scritto nel 1983, ma considerato troppo trasgressivo per quegli anni e, pertanto, rifiutato dagli editori. Verrà pubblicato nel 1985 dalla moglie Joyce che lo rinvenne, casualmente, assieme al figlio Dan.

La vita sregolata di Fante, fatta di scrittura ma anche di alcool, poker e golf, la sua americanità intrisa di una profonda italianità, lo status di emigrante, tra gli emigranti, combattuto dal lacerante doppio sentimento, quello di sentirsi profondamente americano, ma di essere pur sempre un italiano, il rapporto conflittuale con il padre Nick e l’amore protettivo per la madre Mary ed il diabete, malattia che lo porterà alla morte, sono i temi fondamentali di tutte le opere di Fante che, pertanto, possono dirsi tutte, o quasi tutte, autobiografiche.

L’americanità, intrisa di italianità, è stato il filo conduttore della vita e dell’opera dello scrittore.

Era americano nello stile di vita. Amava giocare a poker e bere super alcolici, grande appassionato di golf, sport elitario, specie in quegli anni, di baseball ed auto sportive, amava il gran lusso, la bella, ricca ed agiata vita borghese di Malibù dove con i proventi di Hollywood acquistò una grande villa “ocean view”.

Tuttavia, nei suoi libri, specie quando si sofferma sulla vita familiare, sulla figura della madre, l’italianità emerge totalmente e gli spaccati di vita domestica sembrano quelli di un qualsiasi paese italiano degli anni ’20 o ’30, come poteva essere, appunto, la vita a Torricella Peligna.

Nei pochi e brevi soggiorni in Italia, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, chiamato da Dino De Laurentiis a curare alcune sceneggiature per la sua casa di produzione cinematografica, Fante soggiornò principalmente tra Napoli e Roma. L’idea che si fece dell’Italia e degli italiani, non sempre positiva, è contenuta nel fitto carteggio epistolare che in detti periodi intrattiene con la moglie Joyce ed i figli.

La leggenda vuole che egli non sia mai stato a Torricella Peligna, o che vi sia solo passato velocemente senza fermarsi, questo perché a suo dire non voleva che l’idea che si era fatto del paese d’origine della famiglia venisse in qualche modo modificata.

Ripercorrendo la sua vita di artista, agli inizi degli anni ’30 Fante inizia a scrivere brevi racconti che ricevono il plauso del pubblico e vengono pubblicati sulle maggiori riviste dell’epoca.

Nel ’35, come detto, scrive il suo primo romanzo che entrerà a far parte della saga di
Arturo Bandini
, “La Strada per Los Angeles”, scritto in prima persona, caratteristica dell’autore, che narra la storia del giovane aspirante scrittore “Arturo Bandini” genio incompreso ( emerge in questo romanzo tutta l’ironia di Fante) secondo, forse, solo a Nietzsche. E’ ambientato a Los Angeles, nel quartiere di Wellinghton dove Bandini, in attesa del grande successo, sbarca il lunario svolgendo una miriade di lavori umili. Il libro, tuttavia, viene rifiutato dagli autori. Da qui il secondo romanzo della saga “Aspetta primavera, Bandini”, nel 1938, che ottiene un buon consenso di critica e di pubblico e lo consacra come scrittore, sebbene le copie vendute saranno poche. In questo romanzo, stranamente, l’autore utilizza la terza persona, Arturo è un adolescente che deve fare i conti con la fame ed i comportamenti deplorevoli del padre. Lo scenario è il freddo Colorado, dove Fante nacque e visse la sua prima gioventù.

Nel ’39 viene pubblicato quello che è considerato all’unanimità il capolavoro fantiano “Chiedi alla polvere”. L’ambientazione è quella del quartiere di Bunker Hill a Los Angeles. L’amore di Bandini per la bella messicana Camilla Lopez sarà il soggetto anche dell’omonimo Film del 2006, prodotto da Tom Cruise, direto da Robert Towne, con Colin Farrell, Salma Hayek e Donald Suttherland. Nel ’40 vengono pubblicati i racconti di “Dago Red” che, sebbene non facciano parte della saga di Arturo Bandini, si riferiscono comunque agli anni in Colorado ed a quelli di Los Angeles.

Questo intenso periodo, forse il maggiore, di produzione letteraria sarà seguito dal silenzio per oltre un decennio. Si dovrà arrivare al 1952 con la pubblicazione di “Full of life”, bestseller che darà a Fante la fama, sia in America che in Europa. Sarà anche il libro che gli frutterà maggiormente dal punto di vista economico non solo per i diritti d’autore, ma anche per quelli cinematografici, visto che nel ’57 ne sarà tratto l’omonimo film diretto da Richard Quain, sceneggiato dallo stesso Fante ed interpretato da Judy Holliday. E’ la storia “felice” dello scrittore e della moglie in attesa del primo figlio, anche se Joyce dirà che in realtà i primi anni di matrimonio non furono tra i due molto sereni a causa dell’insoddisfazione di Fante che vede molto spesso rifiutata la pubblicazione dei suoi romanzi o se pubblicati con poco successo di vendite.

La saga dei Molise risale agli anni ’60, anch’essa autobiografica. Inizia con i due romanzi, pubblicati come detto postumi, “1933. Un anno terribile” e “Il mio cane scemo”. Un nuovo buco nella produzione letteraria, forse il più lungo, si concluderà nel 1977 con la pubblicazione dell’ultimo romanzo della saga dei Molise “La Confraternita dell’uva”.

Negli anni ’30, contestualmente alla scrittura di romanzi, Fante inizia il più remunerativo lavoro di sceneggiatore ad Hollywood. Le due professioni, quella di scrittore e sceneggiatore, saranno la gioia ed il dolore della sua vita. La difficoltà di vedersi pubblicati i romanzi portano Fante ad intensificare sempre più l’attività di sceneggiatore che gli consentirà di avere una vita più che agiata, nel contempo ritiene che la sceneggiatura gli limiti l’attività di scrittore. Questa è una tesi sostenuta anche da molti critici. Tuttavia, la moglie Joyce, nell’intervista rilasciata a Giovanna Di Lello, sostiene che furono i “vizi” e l’incostanza, tipica del marito, ad impedirgli di produrre più di quanto fece.

Certo è che la fama oggi tributatagli, seppur postuma, rendono giustizia all’opera, ma anche all’uomo John Fante.

La sua scrittura è semplice ed è stata paragonata a quella di Hemingway; definita da alcuni infantile nel senso nobile, come potevano esserlo gli spartiti di Mozart adolescente, con una grande capacità di trasmettere emozioni, di arrivare alla pancia del lettore. Francesco Durante ha ammesso di essersi emozionato più volte nel tradurre le pagine de “La Confraternita dell’uva” dedicate al padre e che ritiene ineguagliabili ad in assoluto le più belle ed intense di tutta la letteratura mondiale.

I primi romanzi furono subito tradotti in Italia da Elio Vittorini che lo ha antologizzato nella raccolta “Americana” e lo considerava la promessa della letteratura americana del ‘900. Tuttavia, involontariamente, lo penalizza indicandolo come scrittore sociale, ossia l’emigrato italo americano che scrive storie di emigrati, invece John Fante va oltre. Egli parla sì di storie di emigranti, ma lo fa solo perché imprescindibile parte del suo vissuto. Egli, in realtà, è auto ironico quando parla di se ed ironico quando parla del padre, dei “paisani” amici del padre, della religione, della madre e del cibo, anche quest’ultimo immancabile presenza.

Se nei primi romanzi degli anni ’30 il cibo è visto come il riscatto sociale, il rifiuto del cibo che identifica le origini di emigrante (i panini con formaggi e salumi) a favore della maionese che invece rappresenta l’inserimento nel contesto sociale americano, il cibo italiano torna ad essere celebrato nei romanzi degli anni ’60 e ’70, come elemento dell’identità di un mondo che sta scomparendo, quello italiano, che Fante ha vissuto solo da lontano e da emigrato, ma anche quello americano che si sta modificando in seguito agli sconvolgimenti sociali dell’epoca. Non frequentò e non ebbe nulla a che fare con gli scrittori della beat generation! Visse una vita agiata grazie alla sceneggiatura, ma non amava il lavoro di Hollywood. La cosa più importante per lui era scrivere e diventare famoso come scrittore! Lo è diventato, anche se post mortem!

 

Ersilia Caporale

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